recensioni


KURSK 1943,Niklas Zetterling, Anders Frankson


Frank Cass, Londra-Nuova York, 2000, 270pp., 36€.

In lingua inglese.

Frugando tra gli scaffali delle librerie cittadine ci è capitato di imbatterci in un recente volume dall'accattivante copertina intitolato "Operazione Cittadella" di tal David Robbins. Il tomo in questione è un romanzo, ovvero opera di fantasia, ambientato durante la battaglia di Kursk (nell'odierna Russia) del 1943. Considerando in primo luogo che il carattere fittizio delle vicende di un romanzo storico spesso viene trascurato e l'incauto lettore tende, in assoluta buona fede, a prendere per fatti reali le invenzioni narrative dell'autore, ed in seconda battuta ricordando che il Robbins in questione ci ha fornito anche quel coacervo di obbrobri storici e insensatezze narrative titolato "Fortezza Stalingrado" (1), riteniamo di fare cosa utile al lettore suggerendo invece la lettura del testo di cui al titolo, di due ricercatori svedesi. La battaglia di Kursk (operazione Cittadella, per l'appunto) è forse un momento chiave nella storia della seconda guerra mondiale (GMII), magari non tanto per le implicazioni immediate del combattimento, ma perché segna il momento in cui
la marea russa iniziò a rifluire. Inoltre è un avvenimento che per qualche strano motivo è per lo più misconosciuto in Italia; nei libri di testo scolastici non ve ne èt raccia, ma anche in opere di altro tipo, come "La seconda guerra mondiale" curata da Enzo Biagi [1], lo spazio dedicatole è
quantomeno esiguo. Nei piani del comando tedesco la battaglia di Kursk avrebbe dovuto tagliare un profondo saliente che si incuneava nelle linee tedesche e in cui l'esercito sovietico stava ammassando enormi forze per una offensiva estiva. Il controspionaggio russo venne a conoscenza dei piani tedeschi con largo anticipo e dopo due settimane di combattimenti l'offensiva
tedesca venne a perdere vigore, anche a causa della controffensiva russa verso Orel e della necessità di svincolare truppe dal fronte orientale per fronteggiare l'invasione dell'Italia da parte degli alleati. Da quel momento in avanti l'esercito tedesco si sarebbe trovato sempre sulla difensiva.
Il testo, che si propone di compiere una analisi di tipo statistico degli eventi delle prime due settimane del luglio del '43, è metodologicamente ineccepibile: le fonti sono spesso e volentieri di
prima mano (OB e ToE originali, rapporti ai comandi superiori dalle divisioni e dai corpi),
indicate chiaramente, con precisione maniacale, addirittura, a tratti, quasi seccante. Considerando comunque l'irritante abuso della statistica che viene quotidianamente perpetrato dagli pseudo-giornalisti che ammorbano l'etere italico, il volume in questione riconcilia con questa disciplina. Ogni
parametro che viene impiegato nell'analisi del confronto tra tedeschi e sovietici è definito in modo non ambiguo e tutte le assunzioni necessarie per calcolarlo sono chiaramente elencate, e non
nascoste tra le nebbie sicché si possano dagli stessi dati generare conclusioni apparentemente
contraddittorie e adattate ai propri scopi. Il che pone le condizioni necessarie per una sana e
sensata discussione.
Il libro spazza via molti dei miti storiografici che riguardano la dimensione delle forze in campo e
delle perdite patite soprattutto da parte tedesca, e la sua tesi principale è che in realtà, considerate le perdite di mezzi e uomini, la battaglia di Kursk, non fu considerata in se un evento decisivo. Questo contrasta con quanto abbiamo detto in apertura e qui arriviamo forse a quella che è la pecca
principale dello studio: esso analizza la battaglia estrapolandola parzialmente dal suo contesto, per
motivi che sono ragionevoli ma che fanno perdere un po' il quadro globale della guerra. Per
interpretazioni più complessive, anche se viziate da dati erronei sull'entità delle forze in gioco, dello
scontro di Kursk rimandiamo, ad esempio, a [3,4].
Ad ogni modo si tratta di un testo eccellente che contiene materiale di riferimento di enorme qualità
per chiunque voglia dedicarsi a ricerche sul tema, e che si pone come standard per qualsiasi lavoro
futuro sull'argomento. Di particolare interesse a chi voglia condurre delle ricerche in campi simili risulteranno poi le digressioni di carattere metodologico.
Come si evince dal titolo, non esiste una edizione italiana ma il testo è in un inglese molto semplice e di facile lettura. Contiamo pertanto che per il nostro pubblico questo non sia un problema.

Note
(1)Da cui hanno tratto anche un film di discreto successo, "Il nemico alle porte" con Jude Law. Su questo film suggeriamo la lettura di [2]

Riferimenti
[1]E. Biagi (a cura di). La seconda guerra mondiale. Mondadori, Milano 1989
[2] V. Potapov. Enema at the door: a Foreigner Will Not Notice, a Russian Will Not Forgive. Disponibile su   http://www.battlefield.ru

[3]A. Romualdi. Le ultime ore dell'Europa. Settimo Sigillo, Roma, 2004
[4] R. Cartier, La seconda guerra mondiale. Mondadori, Milano, 1987.

Hitler e La Lancia del Destino

Trevor Ravenscroft

Edizioni Mediterranee, Roma 2003 Seconda Edizione (Prima edizione 1989) Prezzo 15.90 Euro

Traduzione di Roberta Rambelli dell'originale The spear of destiny (1972)

"Che confusione, sarà perché beviamo?" (da canticchiare sulle note della famosa canzone). No, è perché ci facciamo di pejote per raggiungere lo "stato psichedelico" e ne andiamo pure parecchio fieri. Come descrivere questo libro? Allora prendete un po' di occultismo mal studiato e mal compreso e per sovrapprezzo appreso su testi di derivazione teosofica, versate un goccio di cristianesimo eretico di derivazione gnostica gusto Steiner, un pizzico di fattonismo New Age, una genuina passione per la storia coniugata con una abissale ignoranza della stessa [1], agitate e comincerete ad avere un' idea di cosa può essere questo libro. Il desiderio del libro è quello di dare una spiegazione al fenomeno del Nazionalsocialismo, con tutto il suo carico di orrori devastazione e morte. Il metodo del libro non è il classico metodo storico/filologico/quellocheviparepurchésialogico o un metodo analitico di qualche tipo e ci viene accuratamente descritto dall'autore stesso nella sua premessa all'opera: è una nuovissima tecnica di ricerca che comporta "il ricorso alle facolta occulte e all'espansione della mente" [2]. :wacko: "Bene!", direte voi, "Con queste premesse perché sei andato avanti a leggere questo libro?" Principalmente perché ormai l'avevo pagato e poi perché ebbi una discussione sul tema del Nazionalsocialsmo esoterico sul forum di Feldgrau in cui uno dei partecipanti citava questo testo come fosse la bibbia, e io volevo capire perché. Abbiamo già detto che il libro parte malissimo; incredibilmente, il seguito é anche peggiore. Non esiste una bibliografia ne un apparato cirtico di note a piè pagina, e praticamente ci sono solo due fonti citate; di queste una é stato dimostrato essere un falso [3]. L'unica parte degna é il capitolo conclusivo, in cui sono ampiamente riprodotti alcuni interessanti documenti ufficiali dell'esercito americano. Per il resto é un delirio ridicolo di interpolazioni fantasiose dell'autore, eventi di cui esiste un solo testimone (quando va bene) e similia. Il libro ruota attorno alla lancia con cui fu trafitto il Cristo morente, la "Lancia di Longino", che sarebbe quella conservata a Vienna nel tesoro degli Asburgo [4] e che per secoli sarebbe appartenuta agli imperatori del Sacro Romano Impero. Secondo il Ravenscroft essa funse, in virtù dei suoi effettivi poteri, da tramite epifanico per il giovane Adolf Hitler ai tempi in cui viveva un'esistenza randagia nella Vienna del primo novecento, alla ricerca, sempre secondo il nostro, di poteri occulti e stati di coscienza superiore propiziati dalle droghe. La visione della Lancia, in congiunzione avrebbe ridestato in Hitler certe potenze maligne che avrebbero preso possesso di lui. Questo avrebbe permesso al giovane Hitler di auto-iniziarsi alla gerarchia satanica ed essere notato dai ragazzacci della Società Thule che in un oscuro rituale avrebbero fatto del corpo di Hitler l'ospite (rullo di tamburi) dell'Anticristo in persona[5]! Immagino non ci sia bisogno di continuare e che si chiaro a tutti che se uno vuole delle interpretazioni metastoriche della storia umana, è molto meglio rivolgersi ad altri lidi. Avrei voluto citare anche i commenti di scherno del Goddrick-Clarcke [6] ma per pietà li risparmio. C'é un qualche interesse in un libro del genere? Con Giulio Arthos, curatore della presente edizione, credo tutto sommato di sì. Per quanto confuso lo stimolo é genuino: l'enormità degli avvenimenti di allora genera nell'uomo il desiderio di una risposta più profonda e questo libro ne è una testimonianza, purtroppo comica ma non per questo meno sincera. Inoltre vale la pena leggerlo per poterne smascherare le menzogne: se ai tempi di quella discussione lo avessi letto, avrei potuto tranquillamente insultare il fan del Ravenscroft per quello che é, un disturbato. Note [1] Ad esempio l'autore è convinto (lo ripete due volte nel testo) che il Barbarossa sia morto in Sicila!! [2] P.21. In realtà questo è il metodo usato dal Dottor Stein, mentore spirituale del nostro, per scrivere il suo libro sul Santo Graal. Ma essendo le visioni (letteralmente) dello Stein la fonte principale del Ravenscroft, ci sembra di non far torto a nessuno se aboliamo nel corpo della recensione il termine medio. [3] Mi riferisco a H. Rauschning, Hitler mi ha detto. Si veda la nota del curatore a pagina 66. [[4] SUll'autenticità del manufatto il dibattito in passato è stato infuocato, ma pare che si tratti di una lancia del XIII secolo [[5] Per soddisfare i vostri pruriti più perversi, vi renderò partecipi anche del fatto che Hitler era la reincarnazione di Landolfo di Capua, un vescovo scomunicato del IX secolo, che il generale Von Moltke parlava alla moglie dopo essere morto e che anche Himmler era posseduto da un potente demone. Vi sconsiglio di leggere questo libro in luoghi affollati; le crisi di ilarità da esso causate possono indispettire chei vi sta vicino. [[6] Uno dei pochi autori che hanno cercato di trattare seriamente quello che volgarmente si chiama "nazionalsocialismo esoterico"

 

Julius Evola

Fascismo e Terzo Reich

(VI ed. ampliata e corretta a cura di G. De Turris, Ed. Mediterranee, Roma, 2001)

Il volume in questione è una raccolta di saggi e articoli di svariata provenienza, la cui parte più sostanziosa sono senz’altro “Il fascismo visto dalla destra” e “Note sul Terzo Reich”, entrambe composti dopo la GMII; spiccano poi per qualità i più brevi “Una storia del Terzo Reich” e “Partito od Ordine?”. Fa anche bella mostra di se un saggio introduttivo molto esaustivo di Giuseppe Parlato, docente di storia contemporanea all’università “S. Pio V” (Roma).

Dopo aver letto e , almeno un po’, assimilato “Rivolta contro il mondo moderno” affrontare un libro “politico” di Evola può quasi non essere nemmeno divertente: in realtà si sa già quali sono i principi e gli argomenti che verranno toccati. Quello che rimane veramente sorprendente é, oltre all’acume profondissimo delle deduzioni, la coerenza interna di questo metodo di procedere, coerenza che si mantiene al di là di tutto, al di là degli anni, delle guerre e delle sconfitte: basta confrontare a questo proposito gli articoli “minori”, scritti nel Ventennio, con i saggi principali. Ma questa è veramente la forza del metodo deduttivo, così poco legato al transeunte mondo dei “fatti” e al fluttuare delle mode “storiografiche”.

E’ quindi quasi superfluo che io accenni al modo in cui gli argomenti sono trattati, cioè dal punto di vista dei principi, superando le contingenze e con sereno distacco sia dall’esaltazione acritica che dalla denigrazione irrazionale dei movimenti esaminati. Ed è proprio il tener come sommamente importanti i principi, le fondamenta, che consente di analizzare correttamente movimenti vivacissimi che raccolsero sotto la propria bandiera rappresentanti delle istanze più diverse, sì da poter scorgere “ciò che fu decisivo per le loro azioni da ciò che invece fu solo un contorno”, a volte demagogico e populista.

Ovviamente il punto di vista evoliano è quello dello studioso della Tradizione, di un autorevole esponente di quella che lui chiama Destra, con la maiuscola. La Destra è definita in apertura del tomo come una corrente politica aristocratica e tradizionale , legata alle forme monarchiche ed imperiali dello Stato, che a detta dell’autore non esiste più in Italia dai tempi della fine della Triplice Alleanza, cioè dalla prima guerra mondiale. In quest’ottica Evola analizza fascismo e nazismo, mettendo in evidenza gli aspetti positivi ma anche ciò che rappresenta una deviazione o ebbe carattere problematico.

La lettura è caldamente consigliata a chiunque non tema il confronto su temi così spinosi proprio per il carattere spassionato dell’opera, che è anche il motivo della sua grande attualità. Nel 2004 affermare che nel nazismo e nel fascismo ci furono elementi non solo degni di rispetto ma anche auspicabili ha certo l’aria di una eresia, visto anche come si sono “recentemente” espressi persino coloro che ad una certa tradizione si richiamavano. Inoltre, sempre in tema di attualità, basta vedere come programmi televisivi pseudostorici o riviste patinate affrontino gli argomenti legati a quel periodo per rendersi conto di quanta faziosità ancora alberghi negli ambienti culturali italiani.

Peraltro Evola è ben lontano dall’essere un “fascista” o una versione moderna di fascista, come ci illustra bene nel saggio intitolato “Autodifesa”: per esempio considera con ribrezzo profondo, e non potrebbe essere diversamente, tutto quanto nel fascismo sia etichettabile come “socialismo” (si, persino numerosi punti programmatici della RSI; cfr. per es. pg. 58). Senza volervi in questa sede anticipare null’altro sui contenuti, vi invito alla lettura di questi saggi, lettura che risulta particolarmente gradevole anche per l’esposizione chiara, rigorosa e ordinata tipica di Evola.


 


Nicholas Goodricke-Clarke

La sacerdotessa di Hitler

Savitri Devi, il mito indù-ariano e il neonazismo



Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2006

I edizione italiana, collana “Giano- l’altra storia”, pp.311, €29.50

Traduzione di Marcello De Martino dell’originale inglese “Hilter’s priestess” (1998)


Maximiani Portas nacque il 30 settembre 1905 a Lione, da madre inglese e padre italo-greco con cittadinanza francese. Il libro del Goodrick-Clarke è una biografia di costei che sarebbe poi divenuta nota col nome di Savitri Devi, personaggio decisamente noto negli ambienti del neonazismo internazionale, specialmente americano.

Il Goodrick-Clarke racconta minuziosamente l’infanzia della giovane appartenente della comunità greca della città francese, narrando gli eventi che, a suo giudizio, più ne influenzarono la vita, come la prima guerra mondiale e lo sviluppo della Megali Ideai o in Grecia la visita in Palestina. Anche le sorgenti intellettuali della sua formazione sono vagliate attentamente; particolarmente importante il poeta anti-crtistiano e classicista Leconte de Lisle (link alla sua pagina su wikipedia [eng]).

La sua avversione verso il cristianesimo e i sistemi democratici la spinsero in un cammino di ricerca spirituale che si concluse con Maximiani che si trasferisce in India nel 1932 e abbraccia l’induismo, che vede come l’ultimo antico culto ariano assimilabile al paganesimo dei suoi antenati greci. Da qui il cambio di nome. In India assisterà da lontano all’ascesa del nazismo in Germania, rimanendone fortemente affascinata, e si dedicherà ad un opera di collaborazione con i locali esponenti nazionalisti

Qui proseguì i suoi studi sull’induismo in un ambiente assai particolare. Alcuni in India fecero di Adolf Hitler un oggetto di culto, identificandolo con uno degli avatar di Vishnu: così ad esempio si esprime Sri Asit Krishna Mukherji, che avrebbe sposato Savitri anche se solo per motivi di convenienza, esortandola ad andare in Europa nel 1937 per essere d’aiuto alla causa ariana: “Va’ e aiuta la rinascita del paganesimo ariano la dove ci sono ancora ariani forti e del tutto desti; va’ da colui che è la vera vita e resurrezione: il leader del Terzo Reich”.

Indubbiamente affascinati da quella che sembrava la realizzazione delle profezie vediche sull’ultimo avatar che avrebbe posto fine all’Età Oscura, avendo visto sorgere,come predetto, in occidente il simbolo sacro della divinità nelle bandiere del Terzo Reich, e certo aiutati nell’opera dalla simpatia che Hitler ispirava come nemico dell’Inghilterra e possibile partner nella loro lotto d’indipendenza, costoro a lui si ispirarono politicamente e spiritualmente.

In questo ambiente Savitri Devi da sistemazione alla sua personale filosofia, un miscuglio sincretico di numerose tradizioni, dall’induismo alla religiosità solare del faraone Akhenaton passando per il paganesimo greco e sfociando nel culto religioso per la persona di Adolf Hitler. Il tutto condito con una misantropia rabbiosa e una vena ecologista intransigente i cui temi non sono niente affatto lontani da un certo ecologismo new-age tanto di moda oggi.

Nonostante le esortazioni del marito la Devi sarebbe rimasta in India per tutta la durata della seconda guerra mondiale, svolgendo col marito qualche piccola operazione di intelligence per i giapponesi.

Fu solo alla fine della guerra che parti per il suo “Pellegrinaggio” (questo il titolo del volume autobiografico che racconta la vicenda) sulle macerie della Germania nazionalsocialista. Dilaniata dal senso di colpa per non aver contribuito alla causa nazista più attivamente e dalla frustrazione per non aver potuto “vivere” il periodo dorato del nazismo, comincia, di sua iniziativa e senza far parte di alcun movimento organizzato, una campagna di propaganda per esortare i tedeschi resistere alla denazificazione. In seguito a questa sua attività di propaganda fu arrestata dalle autorità inglesi in Germania e sarà in carcere che verrà in contatto con nazisti ancora attivi politicamente che piano piano la introdurranno nei circoli dei sopravvissuti del nazismo (come quelli di Rudel e Skorzeny) e, col tempo, del neonazismo, da Freda all’american Nazi-Party di Lincoln Rockwell passando per Ernst Zundel e i movimenti di Supremazia Bianca inglesi. Savitri Devi sarebbe stata attiva in questi ambienti sino alla morte avvenuta nel 1982.

L’ultimo capitolo del libro è un racconto della fortuna e dell’influenza ideologica che Savitri ebbe presso i movimenti neonazisti e si conclude con un ardito, ma non stupido, tentativo di legare, almeno dal punto di vista dei contenuti, la filosofia pagana della Devi agli attuali movimenti ecologisti.

Leggere un libro del Goodricke-Clarke è sempre un piacere: sempre documentatissimo, equilibrato, coscienzioso e abile nell’organizzare la materia. Ci fossero autori come lui che studiano quello che va sotto il nome di esoterismo nazista! Il libro è anche un ottimo riferimento per chi vuole studiare il fenomeno del neonazismo internazionale. Se l’argomento interessa non posso che consigliarlo.

C’è solo una cosa che lascia l’amaro in bocca. La descrizione della filosofia della Devi è un po’ troppo affrettata, anche se solo a tratti, e lascia purtroppo un po’ troppo spazio agli aspetti più sensazionalistici (nazisti ecologisti? Adolf Hitler incarnazione di Dio? E’ facile farsi prendere la mano!). Non sono riuscito a farmi un’idea completa del pensiero della Devi giungendo a discriminare se si tratta di un qualche squallido e delirante sincretismo venato di gnosticismo e colpevole di panteismo o di qualcosa di più raffinato che però ad un certo punto ha completamente perso la bussola. Un tema da approfondire; ma non è proprio questo lo scopo delle biografie?



i La Megali Idea è un “progetto” nazionalista pan-greco che, concepito al tempo delle sollevazioni contro gli ottomani nella seconda metà dell’ottocento, prevedeva per l’appunto di riunificate in un unico stato greco tutte le genti di tale origine sparse intorno all’Egeo. Il progetto, che si sperava potesse realizzarsi dopo la prima guerra mondiale con l’appoggio delle potenze dell’Intesa, naufrago dopo la sconfitta nella guerra turco-greca del 1919.

 

 

BISANZIO E IL SUO ESERCITO

284-1081

Warren Treadgold

LIBRERIA EDITRICE GORIZIANA , Gorizia

Collana: "LEGuerre", n° 42
Brossura, pagine: 300
Prima edizione "LEGuerre", novembre 2007
ISBN: 978-88-6102-016-0
prezzo: Euro 24,00 i.i.

Note:
TRADUZIONE di CHIARA MONTINI


Il libro del Treadgold cerca di rispondere ad una esigenza di tipo storico, ovvero quella di avee un testo comprensivo che trattasse dell'esercito bizantino e raccogliesse tutti i dati disponibili sullo stesso. Il periodo scelto dall'autore va dall'ascesa al trono imperiale di Diocleziano, che egli individua come il primo momento da cui ha senso parlare di “Impero d'Oriente” o “Bizantino” fino alla presa del potere da parte di Alessio Comneno nel 1081, che pose fine a 10 anni di guerra civile seguita alla sconfitta di Romano IV Diogene a Manzicerta, e secondo l'autore anche all'esercito bizantino così come era stato concepito fino ad allora. La fine della guerra civile segnò infatti la fine del modello di esercito territoriale che era stato applicato ininterrottamente per otto secoli nell'esercito bizantino, pur con aggiustamenti ed adattamenti, e faceva di esso il diretto discendente delle Legioni romane.

Il libro è suddiviso in sei capitoli: il primo è dedicato a una rapida storia militare dell'impero e dell'esercito bizantino, mentre i successivi entrano nei dettagli riguardanti la sua consistenza numerica, la sua struttura, le paghe; gli ultimi due capitoli sono invece dediti ad una analisi dell'influenza dell'esercito sulla società e lo stato.

Buona parte del libro ha un approccio storico molto moderno, con analisi pseudo-statistiche che cercano di rispondere a problemi di interesse molto tecnico-specialistico e storico il cui interesse per il grande pubblico è relativamente limitato; inoltre queste analisi sono in genere condotte su dati scarsi e quantomeno di difficile interpretazione, rendendo le sezioni ad esse dedicate fumose e abbastanza tediose.

Il motivo per cui invitiamo alla lettura del libro è però un' altro: tra alti e bassi Bisanzio è stata una nazione sempre in lotta per la sua stessa sopravvivenza, ininterrottamente coinvolta in guerre che avrebbero potuto spazzarla via per cinque secoli. Di necessità Bisanzio realizzo, ante-litteram, l'ideale della “nazione in armi”, vista l'importanza che l'esercito rivestiva dai punti di vista politico, economico e sociale. A Bisanzio gli eserciti proclamavano e deponevano i Basilei, i loro soldati possedevano ampi territori coltivati per garantire il proprio sostentamento avendo così un notevole impatto sull'economia imperiale sia diretto che attraverso l'indotto e le spese militari assorbivano buona parte del bilancio statale. Per la nostra area culturale una lettura di questo genere non può che essere istruttiva, poiché pone temi e problemi di notevole interesse per chi concepisce la vita come milizia.

Incredibilmente, visto che parliamo della Libreria editrice goriziana, dobbiamo segnalare che il lavoro editoriale è stato pessimo, quasi sicuramente dovuto a un errore di versione mandata a stampa, che contiene refusi in quantità, alcune tabelle illeggibili e financo alcuni commenti della traduttrice. Questi errori, complessivamente non nuocciono troppo alla leggibilità del libro ma senz'altro sono fastidiosi.

 

 

Leonardo Vittorio Arena

Lo spirito del Giappone

La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri


Rizzoli, Milano, 2008.

Collana BURSaggi, I edizione, 389 pagine, €10.20


Non si teme il confronto solo quando si conosce la propria grandezza


Più che un vero e completo trattato di filosofia giapponese, questo interessante saggio di Leonardo Vittorio Arena, professore di Religioni e filosofia dell'Asia Orientale ad Urbino, è, per la sua compattezza, una raccolta di suggestioni e spunti atti a delineare un quadro d'insieme della filosofia giapponese e a dare al lettore elementi che ne possano stimolare il desiderio di approfondire qualche specifica tematica. L'altro obbiettivo del libro sembra essere quello di illustrare le peculiarità della forma mentis giapponese, così aliena e misteriosa per gli Occidentali e gli occidentali.

La materia è organizzata cronologicamente e suddivisa per autori, come in un manuale scolastico.

Si parte dagli esordi mitologici shintoisti e passando per le filosofie “importate” dai giapponesi (buddhismo, Zen, confucianesimo) si arriva sino ai giorni nostri. Una piacevole digressione sull'estetica giapponese (un po' in polemica con Heiddeger) fa da intermezzo, illustrandoci espressioni artistiche tipicamente giapponesi come il teatro No, che ha radici fortemente rituali, e la poesia haiku [1].

Se devo dire che la prima parte sul buddhismo e lo Zen è troppo poco approfondita per risultare chiara ed interessante, la seconda parte è invece molto più accattivante. Vengono presentati numerosi esempi di autori che cercano di coniugare il retaggio spirituale tradizionale con le filosofie e i metodi scientifici occidentali, un operazione che, come notava Evola in “Basi spirituali dell'idea imperiale nipponica”, in Giappone è riuscita in modo assai migliore che in occidente.

Gli studiosi della storia del novecento apprezzeranno molto anche la parte riguardante Motoori Norinaga e la Kokugaku (scuola degli studi nazionali) per l'influenza che ebbe sia sulla restaurazione Meiji che sulla successiva politica estera giapponese.[2]

Il testo è concluso da un breve saggio quasi indipendente intitolato “Fenomenologia della mente giapponese” che è una delle parti meglio riuscite del testo.

Ottimo come strumento di riferimento.



[1] Una forma di poesia brevissima; il canone prevede tre versi di 5/7/5 sillabe (pochissime parole) ma capace di suggestioni evocative veramente fortissime.

[2] L'influenza hegeliana su questa scuola è estremamente interessante e volendo permette di condurre una serie di parallelismi che, se esplicitati, risulterebbero illuminanti.

 

 

Peter Levenda

Satana e la svastica

Nazismo,società segrete e occultismo


Mondatori Editore, Milano, 2005.

I edizione, collana “Oscar Mondadori”; pp. 370, € 12.40

Traduzione di Alessandra Sora dell’originale “Unholy Alliance”


Finalmente un libro serio sulle relazioni tra il nazismo e i circoli esoterici ed occultistici! Non ne capitano molti e ancora meno ne capitano con una documentazione così ricca, un apparato di commenti così vasto e che lascino trasparire un lavoro di ricerca così ampio, approfondito e di lunga durata temporale. Si ha spesso addirittura l’impressione, confermata nel saggio introduttivo di Norman Mailer, che il monumentale lavoro di documentazione svolto dall’autore stia stretto in questo libro tutto sommato agile in quanto a numero di pagine.

L’opera del Levenda nasce dall’esigenza di rispondere ad una domanda che già ci siamo posti più volte nell’ambito delle attività della nostra associazione, e di cui abbiamo visto parecchi tentativi di risposta dai punti di vista più disparati: cosa fu il nazismo?

Per Levenda il nazismo fu un culto, nel senso che la cerchia ristretta dei detentori del potere nella Germania nazista in qualche maniera erano membri di società segrete dedite all’occultismo, o derivavano le loro convinzioni dalle “esoteriche” dottrine di queste.

La tesi si svolge secondo le seguenti linee: i fondamenti ideologici del nazionalsocialismo sono riscontrabili nelle dottrine di molte delle società dedite alla magia e latu sensu all’ “esoterismo”; inoltre alcuni dei più influenti nazisti della prima ora erano membri di queste società (specificatamente della Thule Gesellschaft). Inoltre i temi occulti occuparono un grande spazio sia nella ritualità che nelle ricerche delle SS. Pertanto il governo della Germania nazista era nelle mani di una sette segreta di stampo pagano che credeva che i Germani discendessero da una antica razza di semidei che un tempo dominavano il mondo e questo retaggio costituirebbe la giustificazione storica della pretesa di dominio del mondo da parte dei nazisti, oltre che la base del concetto di Lebensraum.

Per giustificare questa sua tesi il Levenda divide il suo libro in più parti. La prima, “ I sentieri segreti del Caos” , traccia un po’ il quadro di quel desolante fenomeno che fu lo sviluppo della Teosofia, nelle varie e squallide forme che essa assunse, tra la fine del ‘800 e nei primi anni del ‘900 e di come essa si diffuse in Germania. Traccia poi una storia di varie correnti völkisch e di circoli dediti alla magia rituale più o meno legati al nazismo per vicinanza di tematiche o comunanza di membri attivi in Germania nella prima metà del ‘900.

La seconda parte del libro, “L’Ordine Nero”, è dedicata a quelle che secondo lui sarebbero le attività di stampo occultista portate avanti dalle SS: abbiamo un capitolo su Otto Rahn , uno sulla Ahnenerbe, uno sull’uso dei medium per scopi militari e uno dedito ad attività analoghe condotte da parte degli Alleati.

La parte finale, “Il sabbath delle streghe in America”, cerca di tracciare le linee di sopravivenza dei culti nazisti nell’età moderna.

Se la parte documentale del libro è ineccepibile, esso però soffre di una sindrome da sensazionalismo eccessivo (1). Il rilievo dato alla maggior parte delle connessioni appare esagerato e spesso forzato, senza contare che moltissime delle argomentazioni sono già state smontate dal Goodrick-Clarke (2), che peraltro è una delle principali fonti dell’autore. Ad esempio l’importanza avuta dalla Thule Gesellschaft nella sconfitta dell’insurrezione comunista di Monaco del ’19 o la sua presunta segretezza e dedizione a divinità oscure appaiono certo esagerate: considerato che si riunivano nel salone di un albergo, non mi sembra che potessero mantenere segreta la loro esistenza né che potessero darsi a chissà quali riti!

Questa voglia di sensazionalismo a tutti i costi porta spesso l’autore a divagare dai temi principali dell’opera per finire a raccontare di fatti e personaggi che solo marginalmente hanno a che fare con il tema del libro e i cui legami con esso sono eccessivamente labili. Come spesso riconosce lo stesso autore, molti dei punti cruciali che servono a sostenere la tesi sono solo congetture non documentate ( cfr. per es. pag. 74) e al massimo possono essere ipotesi di lavoro. La tecnica purtroppo ci ricorda molto quella di sedicenti occultisti di cui abbiamo avuto la ventura di leggere qualcosa e che proprio ai labili richiami e similitudini tra i fatti assolutamente slegati basano il loro ragionamento.

Inoltre il libro è complessivamente viziato dal solito pregiudizio di non obbiettività che si trova in spesso nei testi di questo argomento: il nazismo era talmente terrificante che solo il ricorso a spiegazioni che affondano nel sub-razionale possono spiegarlo. Da qui il tentativo di forzare la mano sull’interpretazione proposta.

Complessivamente si tratta di un libro che contiene ottimo materiale, specialmente le indagini sui movimenti moderni che deriverebbero da quelli tedeschi degli anni ’20, che espone fatti di indubbio interesse ma che per i vizi di cui sopra non possiamo promuovere a pieni voti, ma senz’altro con una più che dignitosa sufficienza. E’ una lettura sull’argomento caldamente consigliata.




(1) Ovviamente un editore serio e composto come Mondatori non si è fatta contagiare da questa sindrome, tant’è che ha pensato bene di cambiare il titolo originale, traducibile con qualcosa del tipo “l’alleanza empia” con un più sobrio e pacato “Satana e la svastica”.

(2) Goodricke-Clarke N. Le radici occulte del nazismo. Sugarco, Varese,1993

 

 

Pierre Gaxotte

La rivoluzione francese



Mondatori Editore, Milano, 1989.

I edizione, collana “Oscar Biografie e Storia”; pp. 467, € 10.40

Traduzione di Maria Rosa Zannini dell’originale “La révolution francaise”, II edizione del 1928


Un assalto all’arma bianca di uno scrittore cattolico contro tutta la rivoluzione francese. Implacabile e impietoso, mette in discussione per intero la mitologia e la retorica della rivoluzione francese.

L’opera racconta la storia della Rivoluzione Francese, seguendo cronologicamente la successione degli eventi sino all’ascesa di Bonaparte. Durante il percorso, ogni aspetto della rivoluzione francese, dalle sue motivazioni e premesse economiche e sociali alle sue presunte caratteristiche di democraticità, viene analizzato, smentito e ridicolizzato. Dall’incongruenza del motto “Libertà, uguaglianza, fratellanza” con le premesse ideologiche derivate da Rousseau alle ridicole “feste della Dea ragione” nulla si salva dallo sberleffo e dalla smentita. Ma non sono solo gli aspetti ridicoli che vengono enfatizzati. La rabbia e lo sdegno dell’autore per il Terrore e la repressione in Vandea e a Tolosa sono quasi palpabili, escono aggressivi dalle pagine del libro, volutamente parziale nell’esprimere il suo disgusto per la guerra civile che per ventitre anni ha insanguinato la Francia.

Un libro che va letto assolutamente, per sfuggire definitivamente ai miti della rivoluzione francese che ancora ammorbano la retorica sinistrorsa.

Molto interessante e acuta anche la descrizione dei modi in cui le varie fasi della rivoluzione vennero attuate tramite la manovre dei circoli giacobino-massonici, un piccolo “manuale del rivoluzionario” sparpagliato tra le pagine del saggio principale.

Il libro presuppone una certa familiarità coi fatti del periodo. Dispiace molto che l’apparato bibliografico sia modestissimo e le citazioni esplicite rarissime: purtroppo era l’uso del periodo per le opere a carattere divulgativo e di taglio non prettamente storiografico. L’adozione di questa forma letteraria, se da un lato consente all’autore di usare una prosa capace “di intensa evocazione drammatica” (dalla 4° di copertina), dall’altro rende a volte i passaggi logici non semplici da seguire oppure un po’ troppo sottintesi.

 

Ernst Jünger

Trattato del Ribelle

(Adelphi, Milano, 1990, euro 7,23, traduzione di F. Bovoli)


“E’ proprio tra gli scarti che oggi rinveniamo le cose più stupefacenti”


In questo testo del 1951 lo Jünger prosegue la sua descrizione del mondo mediante archetipi umani. Il tipo di uomo che tratta qui, quello destinato a fare la Storia nell’epoca delle democrazie, lo chiama Waldgänger, termine che designa coloro che, proscritti e fuorilegge, nel medioevo islandese prendevano la via dell’esilio in luoghi deserti ed inospitali. Certo Jünger ci propone un modello moralmente più accettabile, perché “Ribelle è colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo” (pag.42).

Il trattato si rivolge a coloro che si sentono intrappolati nelle maglie delle “nuove” democrazie “bulgare” sorte nel mondo dopo la fine della GMII, democrazie farlocche in cui la votazione si tramuta in plebiscito. In realtà dai primi capitoli dell’opera non risulta chiaro se l’autore si riferisce solo ai regimi comunisti di là della cortina di ferro o se la critica investe anche le democrazie occidentali, come farebbero sospettare certi indizi.

Costoro, che sono coloro che hanno ancora la foglie la forza di dire “No” agli interrogatori dei potenti, secondo Jünger, possono , ben formati, costituire il nucleo, l’elitè aristocratica di chi si oppone a questi Titani moderni. Sottolineiamo come l’aristocraticità, il richamo profondo al valore del singolo, siano uno dei temi più ricorrenti nei personaggi dell’autore.

Il primo passo di questa educazione consiste nel riconoscere che dire apertamente “No” agli Stati-Moloch dominati dalla polizia non è la strada giusta. Il proprio dissenso si esprime ritirandosi in quello che Jünger chiama il Bosco, da cui anche l’uso che fa del termine Waldgänger.

Il Bosco di cui si parla naturalmente non è un luogo fisico, o lo è solo incidentalmente, ma un posto metafisico in cui l’uomo può finalmente entrare in contatto con i fondamenti dell’essere con quello che c’è di permanente sotto il continuo fluire e rifluire della storia, con le verità profonde che non appartengono al mondo del transeunte, sì da poter distinguere sotto le nuove e “scientifiche” maschere le vecchie paure degli uomini. Nel Bosco il singolo entra in contatto con ciò che oggi spregiativamente si chiama Mito ma che nel pensiero jüngeriano “non è storia remota: è realtà senza tempo che si ripete nella storia” (pag. 54). Nel Bosco l’uomo deve finalmente riconoscere qual è la sorgente della libertà e del diritto, che ovviamente non possono essere quei pezzi di carta che vanno sotto il nome di Costituzioni, perché in una società che ha perso i legami col Geist essi non son altro che mere convenzioni, e che vengono individuati nell’uomo stesso giacché ultimamente “l’esperienza del Bosco è l’incontro con il proprio Io” . Il passaggio sull’origine del diritto all’inviolabilità del domicilio, che si fonderebbe sulla scure brandita dal capofamiglia, è illuminate in questo senso. (cfr. pag. 104; cfr anche pag. 119).

Il ribelle è caratterizzato anche da una furia anti-moderna rivolta nei confronti della tecnica, ma non della tecnica in sé, quanto piuttosto della tecnica che spersonalizza e rende il singolo numero statistico, mentre invece andrebbe inserita , da parte dell’uomo che riprende il dominio su di essa, “in un nuovo ordine di significati” (pag. 52; cfr. pag. 60,84 ) Il ribelle infatti è pronto “ a difendersi non soltanto usando le tecniche del suo tempo […] ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento” (pag. 55). Molti commentatori e critici ( si veda per es. l’introduzione scritta in quarta di copertina) parlano anche di nichilismo per caratterizzare il Ribelle jüngeriano: non bastasse quanto sopra citato per mostrare l’infondatezza di questa tesi, aggiungiamo che più volte il nichilismo è citato come il fondo del vortice che ci trascina verso la fine, o come una gigantesca macina attraverso i cui ingranaggi bisogna passare per poter ritrovare il fondamento essenziale, quasi in una sorta di moderno rito di iniziazione. Tanto meno si può assimilare, come sempre accade in quarta di copertina, il ribelle all’anarchico (cfr. pag. 60): d’altra parte, forse, una casa editrice che si chiama “Adelphi” ha interesse a far fraintendere certi messaggi…

Da un punto di vista pratico, però, non ci saremmo aspettati la conclusione a cui giunge l’autore, date le premesse che hanno un sapore addirittura Tradizionale in certi punti: il Ribelle si tiene pronto a fare il guerrigliero, in caso di guerra contro il nemico, sia esso esterno o interno, compie azioni di disturbo nelle retrovie, passa al bosco (con la b minuscola però) in senso non figurato (cfr. Cap. 29). Certo, egli deve comunque mantenersi distante moralmente dal brigante che vive anch’esso nella macchia, non deve trasformarsi in un criminale (cfr. pag. 119)

Peraltro noi qui, per origini culturali e simpatia umana, si son sempre preferiti i guerrieri che affrontano l’avversario faccia a faccia sul campo anche sapendo che la sconfitta sarà certa piuttosto che quelli che stanno nascosti in una laida forra aspettando di poterlo pugnalare tra le scapole….

La tagliente e per certi aspetti profetica critica delle società moderne, lo stile pulito e chiaro (molto poco tedesco da questo punto di vista) ma vigoroso e coinvolgente anche considerata la densità dei contenuti lo rendono comunque un libro da leggere.

(F.C.)

 

 

VITA ROMANA

usi e costumi istituzioni tradizionali

Ugo Enrico Paoli


Mondatori, Milano, 1976.


I edizione, XVIII ristampa, pagine 282, € 9.80.


Riproduzione dell’originale del 1962



Consigliatissimo. Sì, perché si tratta di una lettura interessante e piacevole, scritta con stile e buon gusto, adattissima sia per lo svago del lettore casuale incuriosito da temi simili che come strumento di supporto per lavori di ricerca.
Dietro il titolo “Vita Romana” sono raccolti due saggi inizialmente indipendenti che l’autore ha poi unificato. I loro titoli sono Urbs e Vita Romana; il primo, corrispondente oggi alla parte iniziale del testo, tratta rapidamente la storia urbanistica di Roma, dalle origini a Costantino. Descrive i principali monumenti e le più importanti modifiche all’impianto urbano nel corso dei secoli, ma da anche conto delle suddivisioni amministrative, della posizione delle più importanti attività produttive e descrive i quartieri cittadini, sia quelli “alla moda” che quelli più “popolari”.
Il secondo volume, che dà il titolo all’opera, è invece una raccolta di notizie, fatti e curiosità sugli aspetti della vita quotidiana romana, una collezione di tutte quelle nugae che difficilmente troverebbero posto in un libro di storia. Il periodo esaminato è sostanzialmente quello che va dalla tarda repubblica ad Adriano, con qualche fugace incursione nei periodi anteriori e posteriori della storia romana. Per farsi un’idea degli argomenti trattati basta dare una scorsa ai titoli di qualche capitolo: “La casa romana”, “I cibi”, “Barba e capelli”, “Gli avvocati”, “ I bagni”, “Superstizioni”.
Le fonti del lavoro sono sia archeologiche che letterarie; gli autori più frequentemente citati sono Cicerone, Orazio e Marziale.
L’obbiettivo dichiarato del lavoro (cfr. prefazione dell’autore) è quello di integrare tutte le informazioni sparse che le fonti comunicano su questi temi in un quadro che sia il più organico possibile ma soprattutto facendo rivivere nel cuore del lettore (ri-cordare in somma) le semplici e per certi versi banali scene della vita quotidiana romana. Obbiettivo pienamente centrato, e senza conceder troppo alla fantasia o all’arbitrio dell’autore, che rischiano sempre di prendere il sopravvento in questo tipo di ricostruzioni e che invece qui sono imbrigliate dall’ottimo apparato di note a piè pagina.
Come avrete notato il libro non è recentissimo, ma è del 1962, cosa che ha due conseguenze. La prima è che vi divertirete molto a leggerlo: lo stile antiquato ma elegante e l’uso di vocaboli, significati ed espressioni desuete sono veramente un valore aggiunto. La seconda è che qualche dettaglio potrebbe non accordarsi con le più moderne dottrine storiche e con i più recenti ritrovamenti archeologici; d’altra parte dubito che la vita quotidiana degli antichi romani sia cambiata molto negli ultimi quarant’anni.


 

 MEDITAZIONE DELLE VETTE - JULIUS EVOLA

Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”. Il libro in questione è Meditazioni delle Vette di Julius Evola, mentre l’autore della frase, che compare sulla copertina del volume, è Reinhold Messner. Basterebbero queste uniche notazioni per farci comprendere il rilievo che il testo evoliano assume sia per gli amanti della montagna che per gli studiosi e i lettori del grande pensatore della Tradizione.
E da questa frase si può trovare una prima via d’accesso per comprendere il significato che l’alpe assume nel pensiero e nell’esperienza di Julius Evola. Nella nota introduttiva al volume è messo in evidenza come l’alpinismo evoliano sia da considerare “elitario e assai differente dagli esibizionismi o dai tecnicismi oggi di moda, nonostante molte resipiscenze e il recente conforto di alcune notevolissime eccezioni”.
Essa poi continua e illustrando il significato dell’esperienza della montagna nell’opera evoliana.
Significato che è del tutto spirituale, mille miglia lontano da ogni ossessione di tipo sportivo e superomistico o, peggio ancora, di stampo turistico-massificante. L’andare per i monti è infatti per Evola soprattutto liberazione, è “una catarsi, uno svegliarsi, un rinascere in qualcosa di trascendente, di divino”. Affermazione, questa, che riecheggia il celebre detto del saggio tibetano Milarepa, per il quale “andare per montagne selvagge, è una via alla liberazione”: non a caso Evola traduce e commenta in Meditazioni delle Vette “Il canto della gioia” da cui è tratta tale citazione.
Alpinismo, quindi, come via per il superamento dei limiti della condizione umana, come “compimento interiore” e “intima trasfigurazione” nella forma dell’ azione e della contemplazione, che divengono “due elementi inseparabili di un tutto”. Un’ascesa, pertanto, che si trasforma in ascesi, in eroica ascesi. Espressione, l’alpinismo, di una “volontà eroica che cerca altri sbocchi oltre la rete degli interessi pratici, delle passioni e delle cupidigie che ogni giorno si serra sempre di più”. E’, ancora, fuga dalle bassure della quotidianità, ricerca del contatto con l’elementare, il primordiale, l’originario, il non addomesticato che si disvela nelle altezze inviolate, nella tormentata purezza dei ghiacciai alpini, nell’incontaminata asprezza delle giogaie montane. Ove, appunto, l’uomo differenziato si ricongiunge alla sua “natura umana più profonda, che è quella stessa delle forze elementari della terra, la cui purità possente e calma si fissa nelle vette ghiacciate e lucenti”. L’esperienza dell’alpe, quindi, non si riduce in Evola a mero ‘contemplativismo’ estetico-borghese di derivazione romantica – cosa ben diversa, comunque, dal senso eroico della contemplazione – né, tantomeno, a lotta superomistica per la conquista della montagna.
E non si tratta tanto, nell’alpinismo metafisico informato ai principi della Tradizione, di “vincere” la montagna, quanto se stessi”. E questa vittoria su se stessi trova per Evola il suo ambiente più adatto in quel “mondo dell’alta montagna che va a parlare alla eredità primordiale” dell’uomo, facendo “emergere lentamente il senso di quella libertà più che umana, che non significa evasione, ma è principio di una forza pura” che si realizza nel “lucido dominio della parte irrazionale dell’essere umano”.
Le terre alte e le vette che si stagliano all’orizzonte come una visione simbolica appaiono pertanto essere un mondo ‘altro’ rispetto alle bassure della pianure, un mondo nel quale è possibile realizzare il Sé anche nei perigliosi percorsi dell’età oscura. Non è un caso che Evola metta bene in rilievo come la montagna esiga un comportamento o, meglio, uno stile che si contrapponga a quello cittadino della civilizzazione contemporanea. Innanzitutto “la castità della parola e della espressione. La montagna insegna silenzio. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica e interiorizza”. Poi “la disciplina interna, il controllo completo dei riflessi” che mira ad una “concentrazione lucida conforme allo scopo”. E, infine, l’alta montagna è luogo propizio al manifestarsi dell’impersonalità attiva in quanto “ci abitua ad un’azione, che fa a meno degli spettatori, di un eroismo che rifugge dalla retorica e dal gesto”.
Evocatrice, anche, la tacita e luminosa maestà dell’alpe. E la massima evocazione di idee e di simboli compare nell’articolo che dà il titolo all’intera raccolta, Meditazione delle vette, laddove Evola con rara efficacia, di fronte al grandioso spettacolo di cime e di ghiacciai che si squadernano alla vista dall'’alto del monte Bianco, è insensibilmente portato a pensare all’ “idea di una superiore, immateriale unità, del fronte invisibile di tutti coloro che […] oggi lottano in ogni terra una stessa battaglia, che vivono una stessa rivolta e sono i portatori di una stessa intangibile tradizione […] Forze apparentemente isolate e disperse […] intese a custodire l’ideale assoluto dell’ Imperium e a prepararne l’avvento, dopo che il ciclo relativo a questi tempi oscuri sarà chiuso”. Le vette qui parlano, allora come oggi, a chi sa cogliere il loro linguaggio, contrassegnato dal sigillo dell’ aeternitas.


 

LA FINE
Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946)

Questo libro fa schifo.
Bisogna riconoscere che l'intenzione era ottima, encomiabile, tanto da spingere qualcuno a regalarmelo pensando di fare cosa gradita. Quasi c'era riuscito.
Approfittando del desecretamento di parecchi documenti d'epoca da parte degli Stati Uniti d'America, gli autori, che da tempo si occupano della Storia degli ultimi giorni del Duce, pensano di pubblicare due rapporti fatti pervenire all'OSS da uno dei suoi agenti operanti sul territorio italiano.
L'agente OSS 441, Valerian Lada-Mocarski, un nobile russo spinto dalle sue travagliate vicende a lavorare come agente segreto operante nel nord Italia per il governo USA , ha redatto due rapporti successivi sulle ultime ore di Mussolini, della Petacci e dei Gerarchi che viaggiavano con loro alla fine dell'Aprile del 1945.
I rapporti sono basati su interviste a fonti primarie, perchè l'autore non ebbe modo di assistere direttamente ai fatti. Dei due il primo è più incompleto e contiene alcune inessattezze che vengono poi corrette nel secondo, che peraltro riporta integralmente interi brani stralciati dal primo.
L'interesse che questo tipo di documenti suscitano ovviamente non sfuggirà ad alcun lettore.
I due rapporti sono poi accompagnati da un ampio saggio introduttivo a cura degli autori, e da una piccola collezione di altri documenti reperiti sempre negli archivi americani.
Ma perché allora questo libro fa schifo?
Non è tanto colpa del Lada-Mocarski, quanto piuttosto per quella degli autori/curatori taliani.
Cominciamo dal titolo. Perché nel titolo compare la scritta 1945-46 se il documento più tardo di quelli riportati è del 1945? Perché la copia del verbale di autopsia eseguita il 30 Aprile 45 archiviato presso l'archivio federale americano (NARA) è del '46? Per pietà.....
Potrà sembrare una minuzia, ma certo è sintomatica di una certa attitudine da parte degli autori. Innanzi tutto, gli autori cercano di spacciarci il rapporto, che è una fonte secondaria come se fosse una fonte primaria. Visti i successi brillanti dell' OSS nel catturare Mussolini (che era uno degli obbiettivi che il servizio segreto USA si poneva, stando ai documenti qui riportati) possiamo almeno dubitare della bontà delle fonti dell'agente 441. I cui rapporti sono in certi punti smentiti dagli stessi autori.
Poi proclamano più volte che il memoriale smentirebbe tutte le ipotesi dietro la cosiddetta “pista inglese”. Il proclama, più che allo stile che ci si aspetterebbe in un saggio storico, si conforma allo stile delle dichiarazioni della politica italiana. E' cioè completamente privo di fondamento.
Ora, lo scrivente non è certo un esperto di “pista inglese” ma sa che il nocciolo della questione riguarda non tanto la mano che sparò al Duce quanto il mandante dell'omicidio. Il fatto l'agente OSS 441 riporti il fatto che l'ordine di uccidere la coppia fosse giunto al partigiano Valerio attraverso il CLNAI, non capiamo proprio come possa smentire le tesi della “pista inglese”.
Se a questo pietoso metodo di cercare di affermare la verità semplicemente urlandola ormai siamo avvezzi, purtroppo non riusciamo ancora a mandarci giù lo stile con cui il saggio è scritto. L'aura di superiorità morale che gli autori cercano di costruire intorno ai partigiani, l'intento evangelizzatore della loro opera che deve portare a noi poveri mortali la verità luminosa che solo i free-lance per “Repubblica” possiedono, aggiunti al simpatico dimenticarsi di far notare lo squallore delle vicende che coinvolsero i fulgidi partigiani col tipico criterio dei due pesi e delle due misure, rendono la lettura del saggio introduttivo una vera tortura. La lezioncina di democrazia contenuta poi nel breve racconto che racconta la visita di uno degli autori al NARA è stucchevole come della melassa con glassa di zucchero.
Aggiungete poi il fatto che i due rapporti e il saggio raccontano la “stessa storia”, per tre volte di fila. Ma i curatori non potevano almeno loro evitare di rifarci il riassunto delle ultime ora di vita del Duce ed entrare più in altre questioni? C'è così poco da dire sul tema?

Garzanti, Milano, 2009.
Pagg. 279
€ 16.60 <!-- fine blocco #32671220--> <!-- inizio blocco #32671225-->

Il sangue dei vinti <!-- @page { size: 21cm 29.7cm; margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->

Il sangue dei vinti


Il libro scritto da Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore, racconta quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile 1945, cioè alla fine della II° guerra mondiale e alla conseguente fine di quella civile italiana.

Ciò che accadde non era mai stato raccontato fino ad ora da scrittori non “schierati”, reduci della R.S.I., infatti Pansa è politicamente schierato a sinistra.

Il libro è impostato con un racconto tra l’autore, che sta raccogliendo materiale per scrivere un libro sull’immediato dopo guerra, e un personaggio inventato Livia Bianchi, che affiancherà l’autore nell’inchiesta su quei tragici giorni.

I due inizieranno a raccontarsi le varie storie di loro conoscenza o che durante le loro ricerche passate hanno raccolto in svariati documenti, che man mano sfoglieranno.

Racconteranno di processi, regolari e non, di esecuzioni, omicidi, e anche di eccidi, ma non solo, i documenti da loro raccolti porteranno alla luce racconti di stupri, sevizie, umiliazioni e torture che i “Vinti” hanno dovuto subire dopo il 25 aprile ’45.

Una sequenza cronologica di sangue da far rabbrividire i più sadici, racconti zona per zona da Milano a Torino, da Genova a Bologna, fino alle varie province del nord Italia,

racconti di fucilazioni o esecuzioni singole o di gruppi, dai gerarchi ai semplici militari fino ad arrivare hai civili accusati di essere o conoscere Fascisti.

Il comune denominatore che unisce tutti questi uomini alla morte è quello di essere stati Fascisti ed aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana, fede che in quel tragico momento con i fucili puntati, è esplosa in un ultima prova di fedeltà, al grido di “VIVA L’ITALIA”.

Questa fu l’ultima parola che hanno gridato prima di morire quei giovani e anziani che scelsero, l’8 settembre 1943, la via più difficile, scelta che li condusse alla morte in battaglia o giustiziati.

Nel libro si denuncia anche l’eliminazione di quanti avrebbero potuto ostacolare l’avanzata del comunismo, queste dunque non furono dettate da una matrice bellica cioè la rivalsa dei vincitori sui vinti ma furono veri assassini politici.

Per concludere e far capire bene lo spirito con il quale affrontarono la morte quei uomini, voglio citare su tutti la lettera d’addio scritta alla moglie del capo della provincia di Novara Vezzalini :

Me ne vado forte, forte, forte. Oggi come ieri, la mia certezza che la Fede che mi ha portato a cadere per lei è la vera, la giusta, mi dà orgoglio di chiedere a te e ai miei bambini di non vergognarsi del nome che portate : sono stato sinceramente onesto in tutta la mia vita privata, lealmente soldato in tutta quella politica..... Non ho tradito, non tradirei, se restassi vivo. Forse per questo cado. Ma con me non cade il mio ideale. Se non fosse perché ci siete voi, che restate poveri e soli, sarebbe bello cantare la nostra canzone di fede e finire urlando : PER L’ITALIA E PER IL FASCISMO, VIVA LA MORTE !”

 

Folgore!... e si moriva  


Nelle sterminate sabbie, fra le dune del deserto egiziano, prima di ogni disperato attacco, verso un nemico maggiormente armato e numericamente superiore, un grido si distingueva: “Folgore”…e si moriva! La storia ci racconta che nell’autunno del 1942 nel deserto africano, ad El Alamein, le forze britanniche del generale Montgomery, dopo aver massicciamente borbandato con artiglieria ed aviazione, iniziarono l’attacco contro le linee italo-tedesche. Il libro scritto da Raffaele Doronzo, reduce da El Alamein, dal titolo, appunto, Folgore!...e si moriva, racconta le drammatiche vicende del IX battaglione del 3° reggimento, che fu schierato nel settore meridionale del fronte. Un diario cronaca scritto con semplicità e realismo, dove l’autore racconta le sue esperienze, dal 6 giugno 1942, data del primo lancio, fino ad arrivare al giorno del suo ferimento e conseguente rientro in patria, tramite una nave ospedale il 22 aprile del 1943. Nel scorrere la lettura si capisce quali sacrifici hanno dovuto affrontare i militari italiani, non solo affrontare, come già accennato, un avversario con superiorità schiaccianti di uomini e mezzi, ma essi dovevano centellinare acqua e viveri, ma soprattutto combattere contro la dissenteria. Sacrifici che non hanno fatto venir meno il senso del dovere di quegli uomini che nemmeno nei momenti più difficili e di sconforto hanno mollato. In queste pagine troviamo grande umanità e spirito di corpo, cameratismo, ma soprattutto il valore di soldato. Ci sono voluti 60 anni affinché l’Italia condividesse la memoria di un evento eroico e drammatico, come fu la battaglia di El Alamein, rendendo omaggio a quei seimila uomini che non vollero arrendersi alla strapotenza del nemico e che attaccarono i carri armati con le bottiglie incendiarie, con il piccone e morirono gridando “Folgore”. Dalla lettura si recepisce che non erano uomini senza paura o pazzi, ma furono in grado di controllare i sentimenti combattendo la paura in nome della loro amata Patria: l’Italia. Magra consolazione per i pochi superstiti, ma a così tanti, tantissimi anni di distanza da quegli eventi, gli è stato riconosciuto il valore che gli spetta. L’autore ha atteso più di 30 anni prima di pubblicare questa autobiografia, che vale la pena di leggere per conoscere, senza nessun tipo di pressioni, e comprendere come i nostri militari hanno assolto con modestia il proprio dovere, fino in fondo, per uscire al giudizio di una Nazione, con la testa alta. Concludiamo dicendo che, sia tu un appassionato di storia, un paracadutista o un semplice lettore, leggilo perché ne vale la pena, e ti aiuterà a riscoprire, in questa società materialista, dei valori ormai scomparsi. Valori spirituali che leggerai a quota 33 di El Alamein scritto sulla lapide del sacrario militare:

Essi conobbero, prima del supremo mortale cimento tormento insonne di attesa, sete, sozzura ,fatica. Seppero vicende disperate di battaglia…Poiché condotti non da vanità o bramosia di ventura ma di obbedienza alla Patria benedicili o Signore.



Folgore! …e si moriva (diario di un paracadutista) edizione Mursia euro14,30